Cibo, economie morali, mercati e flussi migratori

di Augusto Ciuffetti
(Ricercatore di Storia Economica presso la Facoltà di Economia “Giorgio Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche).

Ci sono temi e questioni che, in una prospettiva di lungo periodo, travalicano ogni scansione temporale e dall’attualità affondano le loro radici nel lento e complesso svolgimento della storia delle società occidentali e non solo. Uno di questi temi, che nell’anno dell’Expo avrebbe meritato un’attenzione diversa da quella che le è stata riservata, è quello della scarsità delle risorse alimentari, cioè delle carenze che si verificano sul lato dell’offerta, da coniugare anche e soprattutto in altri termini, come quelli dell’impossibilità, da parte di ampi strati della popolazione mondiale di accedere all’acqua e al cibo per soddisfare bisogni vitali.

È sul lato della distribuzione delle risorse, infatti, che attualmente si generano le diseguaglianze più profonde.

Nella sostanza, si tratta delle teorie sull’Entitlement Approach, messe a punto da Amartya Sen nei primi anni Ottanta del Novecento, in base alle quali “la morte per fame è dovuta al fatto che gli individui non hanno abbastanza cibo per nutrirsi, e non al fatto che non esiste cibo sufficiente per nutrirsi”. Secondo l’economista indiano per combattere la fame, piuttosto che agire sulla scarsa produzione alimentare, è necessario operare sulle modalità di accesso ai beni e ai servizi, tenendo conto dello status delle persone e delle possibilità offerte dai sistemi politici. È in questa prospettiva che viene interpretata l’insicurezza alimentare di paesi come il Bangladesh o si spiega la grande carestia del Bengala del 1943-1944.

Come è noto, le teorie di Sen hanno contribuito ad una ridefinizione delle politiche alimentari in ambito internazionale, consentendo il superamento di un approccio a questo problema di tipo malthusiano. Le suggestioni che derivano dalla lettura dei suoi testi si possono ampiamente applicare anche all’analisi storica, nel tentativo di comprendere le interazioni tra condizioni sociali delle persone, logiche di mercato e diritto alla sopravvivenza degli individui. Si tenga conto, infatti, che in età medievale e moderna molto spesso la carestia viene associata ai prezzi dei cereali particolarmente elevati, piuttosto che ad un’effettiva carenza di cibo. Appare dunque evidente, come questo tema, per il lungo periodo preindustriale, vada letto non solo su un piano economico e sociale, ma anche e soprattutto politico. All’urgenza sociale della mancanza di acqua e cibo, si somma sempre, cioè, il dato politico o istituzionale che sia,poiché sappiamo benissimo, oggi come nel passato, come il potere si fondi sempre sul controllo e la gestione delle risorse alimentari ed energetiche e sui diversi e possibili usi delle stesse, non solo a fini alimentari. Per avvicinarsi, dunque, in una prospettiva storica, a tali dinamiche è opportuno muoversi tra due poli: uno di natura economica e l’altro più squisitamente politico, perché è alla storia sociale delle istituzioni e di chi le governa e si muove al loro interno per soddisfare i bisogni della collettività, ma molto più spesso, per salvaguardare i propri interessi, che bisogna rivolgersi per rivelare meccanismi, atteggiamenti, pratiche e consuetudini.

Ripartendo da Sen ed utilizzando in un’ottica diversa categorie e definizioni ampiamente consolidate si possono elaborare, dunque, delle riflessioni volte a definire dei possibili percorsi, in grado di offrire qualche indicazione sul perché malnutrizione, fame, povertà e ingiustizie sociali non siano sempre la conseguenza diretta di mancanze ed assenze, ma anche il risultato di scelte politiche ed economiche volte a discriminare.

In altre parole, è forse ancora necessario sottolineare come e quando si è realizzato il superamento di un’economia, seppur rivolta al profitto, in grado di preservare determinati equilibri sociali.

Due poli, quindi, quasi come le due rive di un fiume, quello della carenza delle risorse alimentari o dell’impossibilità di accedervi, che scorre agitato ed impetuoso oltre ogni confine, oltre ogni spazio temporale. Un fiume che i soggetti sociali e politici collocati sulle opposte rive, nel corso della storia, dall’antichità ad oggi, hanno sempre cercato di attraversare, gestire, mettere a regime. Su una riva ci sono gli uomini, i contadini, se vogliamo, di una qualsiasi comunità rurale dell’Italia preindustriale, che lavorano per soddisfare i loro bisogni primordiali: qualcosa da mangiare,dei panni per vestirsi e una casa dove abitare, il tutto finalizzato alla sopravvivenza e che guardano dall’altra parte del fiume, dove risiedono le istituzioni e i ceti dominanti, utilizzando una lente particolare, quella, ricorrendo ad una nota definizione di Edward Thompson, dell’economia morale, che dovrebbe imporre a questi ultimi determinati ruoli e comportamenti.

Sull’altra riva del nostro fiume troviamo, dunque, i ceti dominanti, i proprietari delle terre, i cui bisogni vanno ben oltre le più immediate esigenze della sopravvivenza e che possono soddisfare anche i loro desideri più effimeri, ma che nello stesso tempo hanno una necessità, funzionale al loro potere, quella del riconoscimento del loro status e dei loro privilegi. Per gran parte dell’età preindustriale, esiste un ponte, seppur fragile, che unisce queste due sponde ed è, appunto, quello dell’economia morale. Un ponte destinato a crollare e ad essere ricostruito in continuazione. Se rivolte e ribellioni popolari dettano le scansioni temporali dell’età preindustriale, è pur vero che esse si intensificano nel momento in cui si verificano le cause naturali che producono le carestie e quando c’è una chiara percezione di un “tradimento”, da parte dei ceti eminenti, proprio sul terreno di quella economia morale attraverso la quale passa ogni forma di dialogo tra ceti eminenti e subalterni.

Nel corso della storia moderna, a sostegno del ponte dell’economia morale, sono state poste delle pietre lavorate in modo tale che possano resistere più a lungo,garantendo equilibri sociali e politici tali da consentire, ai più poveri, di avere margini di sopravvivenza più ampi. Una di queste pietre è l’affermazione, nel mondo rurale del basso medioevo, di nuovi rapporti di produzione regolati da inediti contratti.

Nell’Italia centrale e poi in altri territori dell’Europa occidentale, la mezzadria è qualcosa di profondamente diverso rispetto al lavoro servile posto alla base dei vincoli feudali dell’alto medioevo, in realtà capaci di sopravvivere, in determinate aree del vecchio continente, fin dentro lo sviluppo del capitalismo. È pur vero che queste nuove forme di conduzione della terra, accompagnate da una sempre maggiore penetrazione dell’economia di mercato nelle campagne, saranno destinate a produrre nuove forme di povertà, senza riuscire a lenire la debolezza dei ceti subalterni, sia di fronte alle carestie ed alle crisi di sussistenza, sia nei rapporti con i padroni delle terre. Ci sono, poi, altre pietre, alcune finemente modellate, come gli usi civici, le comunanze agrarie, i beni collettivi e cioè tutti quei diversi modi di possedere, parafrasando un importante studio di Paolo Grossi, in parte accettati dalle élites, in grado di aumentare i livelli di sopravvivenza dei più poveri, soprattutto in aree, come quelle montane, meno generose dal punto di vista climatico e della produttività. Altre piccole pietre sono le norme e le consuetudini non scritte che regolano i rapporti tra i vertici e la base della società, oppure alcune istituzioni come le magistrature dell’abbondanza o dell’annona, che agiscono in occasione delle carestie o quando il prezzo del pane tende a salire eccessivamente.

Quando esplodono le carestie, determinate non solo da cause naturali, ma anche dalle guerre, e dilagano immediatamente le epidemie, pur di resistere, i contadini mangiano anche l’erba dei campi. È il classico modello malthusiano: nel momento in cui la popolazione cresce eccessivamente rispetto alle sue risorse, andando incontro alla malnutrizione, gli spazi della sussistenza calano drasticamente. In questo contesto, le epidemie aggrediscono le fasce più deboli della popolazione, provocando una mortalità catastrofica in grado di riportare in equilibrio il rapporto tra popolazione e risorse. In tali situazioni, per avere qualche possibilità di salvezza non ci sono alternative rispetto alla fuga: bisogna mettersi in cammino. Quelle dei poveri, in età moderna, sono delle masse fluttuanti in perenne movimento, che aumentano nei periodi di crisi per dirigersi verso le città, dove ci sono le strutture assistenziali degli enti religiosi, insieme alla beneficenza dei ricchi, ma anche maggiori opportunità di lavoro.

È l’istinto della sopravvivenza che spinge uomini, donne e bambini, nel passato come oggi, verso i luoghi dove si intravede unbarlume di speranza. Cambiano le scale, ma non le dinamiche e soprattutto le mentalità. Braudel affermava che l’immenso Mediterraneo dell’autunno del medioevo, durante l’età contemporanea, per effetto delle rivoluzioni economiche che investono i trasporti, è destinato a trasformarsi in un piccolo lago. L’Europa che oggi si pensa assediata dai migranti in fuga da fame e guerre è molto simile agli spazi urbani dell’età moderna, verso i quali affluivano i contadini delle campagne circostanti. Oggi come allora, il povero che arriva è considerato uno straniero e quindi un vagabondo, un deviante, al quale attribuire ogni crimine.

Nel corso dell’età moderna, mentre sopravvive l’economia morale, si mette in moto il processo di accumulazione del capitale, che muta profondamente gli equilibri sui quali si regge quest’ultima.

Contemporaneamente, il mercato tende a conquistare una definitiva centralità in ogni rapporto economico. Il fiume evocato in precedenza si ingrossa, gli argini non riescono più a contenere le sue acque, mentre le sponde, soprattutto quelle dove vivono poveri, marginali e contadini, iniziano a cedere: le campagne sono inondate, i ponti trascinati via. Nelle forme di riconoscimento e di legittimazione del potere, le élites hanno sempre meno bisogno dell’economia morale, sostituita dall’esercizio del potere in sé e dall’accumulazione della ricchezza. Si tratta, ancora una volta, di una dinamica che contiene molte corrispondenze con il mondo attuale.Le logiche di mercato e la ricerca di profitti sempre maggiori erodono gli spazi della sopravvivenza per poveri e contadini. Durante l’età moderna, la carestia si associa sempre di più al repentino aumento dei prezzi che si formano sui mercati, tanto che si consolida anche la riflessione sul giusto prezzo di derivazione medievale. Il capitalismo penetra nelle campagne, dagli open filds, cioè il modello dei campi aperti, la cui agricoltura è finalizzata al sostentamento delle comunità rurali, si passa al sistema dei campi chiusi, cioè alla loro recinzione (il fenomeno inglese delle enclusures), che rafforza la proprietà privata. In questo “mondo nuovo” non si produce più per la sopravvivenza, ma per il mercato, cioè per quel profitto che spezza la contiguità tra poveri e possidenti: usi civici e beni collettivi vengono attaccati, le piccole proprietà contadine travolte. Tutto ciò produce un costante aumento di braccianti senza terra che vivono ai limiti della sussistenza. Le distanze tra le due sponde del fiume delle carenze alimentari aumentano e non ci sono più ponti in grado di superarlo: da un lato cresce la ricchezza concentrata nelle mani di una ristretta élite di mercanti, aristocratici e borghesi in forte ascesa sociale; dall’altro aumenta la precarietà.

Le città iniziano a respingere i miserabili, destinati a trasformarsi in mendicanti e si tenta anche una paradossale, quanto iniqua ed inutile distinzione tra i poveri veri, meritevoli di essere aiutati, ai quali si fornisce una patente ufficiale di mendicità, e i falsi poveri, che cercano di approfittare delle situazioni. In generale, si procede alla loro reclusione all’interno di enormi ospizi ed ospedali, i quali non si configurano,ovviamente, come dei luoghi di cura. Non importa cosa accada o come si possa vivere oltre le mura di cinta di tali edifici:il dato fondamentale è impedire a questi poveri di circolare liberamente nelle vie e nelle piazze, disturbando la quiete pubblica e gli abitanti ben vestiti, infastiditi dalle continue richieste di elemosine. I poveri, al pari di quanto accadrà agli operai degli slums della rivoluzione industriale inglese, devono diventare invisibili. Il Seicento, nella storia sociale dell’Europa moderna,è indicato anche come il secolo della “grande reclusione”, un paradigma valido anche per il mondo attuale, sempre più segnato dalla presenza di muri eretti nella realtà come nelle coscienze.

Se nell’età moderna il mercato rafforza la sua centralità, nello stesso tempo, lo Stato tende ad intervenire per regolamentarlo, perché in fondo è proprio il nascente Stato moderno, quello stato che dovrebbe occuparsi della felicità dei suoi cittadini, ad ereditare i principi dell’economia morale. È tra Sei e Settecento che si consolida un continuo conflitto, seppur contraddittorio e sfuggente, a causa del camaleontismo degli attori in gioco, tra la supposta libertà del mercato e la sua crescente regolamentazione, perseguita dalle autorità pubbliche. Si tratta, in sostanza, delle dinamiche del doppio movimento descritte da Karl Polanyi, le quali oscillano tra le pratiche del liberismo economico e i principi della protezione sociale. È un conflitto forte, oppure un semplice gioco delle parti, quindi un contrasto apparente, quello che sembra separare il mercato dallo Stato, dal momento che quest’ultimo è saldamente nelle mani di chi detiene anche le leve del potere economico e della ricchezza? È alquanto difficile rispondere a questa domanda, pur ricorrendo alle sollecitazioni che provengono, in tal senso, dal dibattito neo istituzionalista e dalle analisi che si richiamano all’economia delle convenzioni. Di certo, mercanti e capitalisti, pur di aumentare i loro profitti, di fronte a norme ritenute troppo stringenti, tese a difendere, almeno esteriormente, la collettività e i settori più deboli della società, si sentono autorizzati, al di là di ogni etica, a ricorrere a frodi e raggiri, come del resto accade anche oggi.

Con il loro carico di contraddizioni e conflitti, dunque, le società dell’Europa occidentale sono progredite in direzione di una economia mondo, utilizzando la definizione di Immanuel Wallerstein, sempre più spietata, la quale, nel momento in cui assegna potere e sostanziali forme di democrazia al centro, consente le pratiche dello sfruttamento e della schiavitù nelle aree periferiche del sistema, queste ultime funzionali solo ed esclusivamente al benessere del centro stesso. Si determinano, così, le “magnifiche sorti e progressive” del mondo attuale, le sue basi economiche e politiche votate all’ingiustizia e all’ineguaglianza.

In definitiva, questo racconto contiene al suo interno una storia molto più semplice e banale, vale a dire la perdita della centralità dell’uomo nella società contemporanea, sostituito dal mercato e dalle sue “regole”, con una tempestiva conseguenza, destinata a produrre altri effetti più gravi, in termini di guerre, odi razziali e conflitti religiosi, cioè che le condizioni di coloro “più immediatamente toccati dall’azione deleteria del mercato”, utilizzando le parole di Karl Polanyi, e di un certo capitalismo, risultano sempre meno salvaguardate. Se l’azione dello Stato settecentesco avrebbe dovuto rivolgersi al benessere dei suoi cittadini, ancora più forte e insuperabile appare il contrasto con l’uomo contemporaneo, sempre più solo e infelice.

Data di pubblicazione:
20/01/2016
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